Brutti, sporchi e dirigenti

Qualche giorno fa è apparso sul Corsera un fondo a firma del Dinamico Duo Alesina e Giavazzi che, in un tweet, ho definito “sparo ad alzo zero” contro la dirigenza e nel quale, passatemi la sintesi con l’accetta, si prefigura una dirigenza pubblica sotto spolis system quale via maestra per fare – finalmente – le riforme. Della cosa si è discusso molto fra operatori della cosa pubblica e c’è stata qualche replica ma della cosa il grande pubblico si è sostanzialmente disinteressato. Un po’ perché era un pezzo il cui messaggio era diretto agli addetti ai lavori (quali, in particolare, sarebbe interessante sapere), un po’ perché si è perso nel mare tempestoso dell’assalto alla casta (burocratica, stavolta). Ma i dirigenti sono davvero i ‘distruttori delle riforme’? Per quel che mi riguarda, trovo inutile e controproducente fare il difensore d’ufficio della dirigenza. I dirigenti pubblici italiani sono donne e uomini come tutti, e fanno parte di un sistema che ha certamente mille pecche, soprattutto perché così voluto da chi ha gestito il potere in Italia dal dopoguerra a Tangentopoli, e di quella mala gestione della macchina amministrativa come serbatoio elettorale e luogo in cui infornare amici e sodali paghiamo ancora oggi costi altissimi.

Queste donne e questi uomini sono però lavoratori particolari, che non servono padroni né sono a servizio della politica sic et simpliciter: essi servono, attraverso declinazioni di obiettivi e in un quadro di regole, gli indirizzi del Ministro pro tempore, che è espressione della maggioranza del Parlamento e, quindi, della volontà della maggioranza degli Italiani. E, soprattutto, servono la legge e la Costituzione. Ma, sotto sotto, a chi si riferivano A&G? A quale dirigenza? Ai funzionari che, secondo l’ex Ministro Gelmini, che assoldò il dirigente a tempo che vergò il comunicato sui neutrini mentre faceva, allo stesso tempo, il suo addetto stampa, “non sempre collaborano”? E con quale consapevolezza e conoscenza della macchina pubblica? Ai mandarini di cui parlava mesi fa Galli della Loggia? Credo che quando si affrontano certi temi occorre capire, distinguere, analizzare, perché la macchina pubblica non è una cosa semplice. Non lo è in nessun Paese del mondo, neppure nei regimi autoritari e dittatoriali, figuriamoci nelle democrazie. E allora lascio la parola a due colleghi provenienti, come me, dalla esperienza della Scuola Superiore della P.A. (esiste una Scuola del Governo che recluta e forma dirigenti tramite concorso e prove severe, ohibò!) che in un botta e risposta ci dicono non tanto con quali lenti leggere quel corsivo, ma da chi è fatta la dirigenza. Ognuno si faccia la propria idea.

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Dice il primo: “Il corsivo di ieri mi sembra un po’ superficiale, miope e raffazzonato, e condivido le critiche severe di Oliveri [@rilievoaiace, da seguire, NdR]. Ma è veramente difficile dar torto  ad Alesina e Giavazzi quando additano, in ultima analisi, il sottobosco ministeriale (gabinettismo, dirigenti a chiamata diretta senza concorso, strutture e strutturine, etc.etc. che tutti noi ben conosciamo) come motore ma anche ostacolo, come fulcro dell’attività, anello di congiunzione tra politica e macchina, ma anche possibile metastasi del sistema. Anche se lo chiamano “altissima dirigenza”. E al di là delle inesattezze guiridico-formali (sì, è vero, i ministri ben possono cambiare capi gabinetto, vice capi, etc) ma QUEL mondo, fatto di consiglieri di stato, della corte dei conti, avvocati dello stato, a doppi e tripli stipendi si è reso (o ha fatto credere di essere) indispensabile, a quanto pare. Ed infatti, come vediamo, girano nel giro, ma sono sempre gli stessi. Destra o sinistra (o tecnici). E quindi fanno ammuina, anche loro, ad altissimo livello: si scambiano la sedia, ma alla fine in pochi gestiscono tutto il potere, le “redini”, certamente più di ministri a cui spesso non basta una legislatura per capire dove sono capitati, quale sia la mission. Potrebbero essere il faro per l’amministrazione (ed in alcuni rari casi lo sono), ma di fatto…. Non abbiamo paura del cambiamento e di metterci in gioco: il tanto amato status quo non è meritocratico, e sebbene avremo una probabile competizione elettorale tra B&B, dobbiamo continuare a credere in un sistema migliore, che dia maggior riconoscimento ai risultati, più servizi a costi minori. Non questo costosissimo apparato che non dà più welfare, non crea opportunità, non difende i deboli, non assicura giustizia. Perché in massima parte funziona esclusivamente per far sopravvivere se stesso. Proviamo a chiederci, seriamente: ma se il mio ufficio, la mia direzione intera, forse il mio stesso ministero non esistesse, così, scomparisse dall’oggi al domani, al cittadino, alle imprese, al sistema-Paese, al mondo economico-finanziario, alla UE, al mondo intero, quale danno reale verrebbe arrecato? La perdita che si rischia, ne giustifica il costo astronomico? Può darsi. Anzi, in vari casi certamente. Ma, a mio parere, in molti casi l’unico vero problema sarebbe la perdita di posti di lavoro, con conseguenze negative per le famiglie e quindi per i consumi, ricadute sociali. Indi per cui, come spesso si sente dire, la p.a. italiana, a differenza di altri Paesi nonché delle aziende private, non alleggerisce gli organici (dalla produttività nel complesso imbarazzante) perché svolge un’enorme funzione di welfare. Non si licenzia non perché non ce ne sia la ragione (è di plastica evidenza anche per un bambino) ma perché è oggettivamente faticoso prendersi la responsabilità di mettere migliaia di famiglie in mezzo alla strada. Ma paradossalmente, per continuare così, dovendo anche far quadrare, più o meno, i conti, nemmeno si assume, da secoli, così che neppure ci si avvantaggia di un ricambio generazionale, i migliori (ed anche i meno peggio) se ne vanno, e nei ministeri siamo tutti MEDIAMENTE vecchi, sempre meno formati, poco produttivi, privi di risorse, con scarse prospettive di crescita. E con buona pace dei sindacati, strenui difensori dell’immobilismo. Sono contrario, ovviamente, alle decimazioni ed ai tagli lineari. Non penso che il privato sia migliore e, lo ripeto ancora una volta, sono orgoglioso di essere un dirigente pubblico. Per questo non mi piace tutto il pacchetto, così come lo abbiamo ereditato. Anzi, penso che si possa migliorare, e non di poco. E ancora penso che scandalizzarsi per gli sprechi, gli errori, le porcherie è sacrosanto, e non farlo significa tradire il nostro mandato, quello di ad-ministrare la “cassa comune” al meglio, a beneficio della collettività che quei soldi ci ha affidato“.

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Dice la seconda: “I pochi spunti condivisibili del loro editoriale affogano in mezzo alla massa di imprecisioni, svarioni colossali (i dirigenti non sono eletti dal popolo, quindi non sono legittimati) che denotano un’ignoranza colossale dei fondamentali, come giustamente fa notare Oliveri (tra l’altro da un Giavazzi che la p.a. dovrebbe conoscerla, avendone fatto parte). L’effetto finale è quello di sparare in maniera indiscriminata a palle incatenate sui “dirigenti” (che solo in un punto dell’articolo vengono definiti “alti dirigenti”) accusati indiscriminatamente di sabotare “le riforme” (altro totem verbale dietro il quale il più delle volte si nascondono affastellamenti di leggi affrettatamente scritte e altrettanto frettolosamente modificate, comunque sempre pericolosamente illeggibili) in nome della conservazione della propria posizione di privilegio a spese del popolo. Anche qui, la voglia di trovare un bersaglio facile prevale sul reale interesse a conoscere e rendere conoscibili alcune oggettive disfunzioni del sistema. Ora quando il collega dice “Ok, ma tante volte ci siamo lamentati del sottobosco dei capi gabinetto e capi legislativi, che se la cantano più del ministro, ora G e A dicono che il ministro è prigioniero di questi soggetti e voi ve la prendete”. Me la prendo, eccome. Perché un editoriale sulla prima pagina del Corriere della Sera merita di essere scritto in altri termini. C’è chi è in grado di cogliere il significato reale (spero fosse quello reale, almeno) dell’allarme Giavazzalesiniano, perché automaticamente sostituisce alla parola “dirigenti” la frase “gente come quel celeberrimo capo dell’ufficio di diretta collaborazione dei tal Ministri”. Ma quanti sono in grado di farlo? Ciò detto, quando leggo le cose che scrive il collega, almeno in parte mi riconcilio con il mondo (e con il “nostro mondo”, in particolare) perché penso che finché c’è gente onesta, preparata e – ancora – motivata, questo Paese ha ancora speranza per qualche tempo. Come Sodoma per via dei suoi giusti“.

One Reply to “”

  1. Ormai, i nodi stanno venendo al pettine e affiora la consapevolezza di una crisi del sistema democratico nel suo complesso. La democrazia, nelle sue infinite articolazioni di assemblee elettive, società partecipate e controllate dagli enti territoriali, consulenze, direzioni centrali e periferiche, enti inutili, fondazioni e comunità montane al mare (Tropea) è diventata un sistema autoreferenziale che tende a divenire sempre più vasta e sempre più costosa. E. Severino, proprio parlando della crisi della democrazia, ci ha detto da tempo che quando il mezzo si è sostituito al fine, per l’occidente sono sempre stati grossi guai. La nostra democrazia non è più il mezzo (migliore?) per prendere decisioni, ma è fine a se stessa. Questo grosso problema (che è in fondo il mercato della compravendita del consenso su cui si basa tutto il nostro sistema partitico di welfare) si risolve solo con una riforma dello Stato e della Costituzione che semplifichi la burocrazia. Ma di burocrazia è fatto il sistema di consenso dei partiti (nessuno escluso, ve lo dice uno del Pd) e quindi non rimane che una rivoluzione luterana che parta dalla politica. Ci vorrebbe un Lutero, qualcuno ancora più innovativo di Renzi. In ogni modo teniamo lontano Grillo da questi problemi, non è nemmeno in grado di capirli.

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