Credo necessario, soprattutto oggi, affrontare il tema del ruolo e delle responsabilità propri delle dirigenze pubbliche in Italia. Ed è necessario perché, in primo luogo, è urgente e indispensabile dare risposte concrete ai cittadini a fronte di una crisi che si è rivelata come etica e di sistema, prima ancora che economica e politica. Gli scandali della politica che occupano le prime pagine dei giornali stanno causando danni incalcolabili alla comunità e portano, inevitabilmente, ad un moto di rifiuto e disgusto da parte dei cittadini che si assomma alla eredità tragica della propaganda del fannullonismo (val la pena ricordare, a titolo di amaro aneddoto, un premio pubblicizzato sul sito internet del Dipartimento della Funzione Pubblica dal titolo “Non solo fannulloni”). Credo, cioè, che aver spostato l’attenzione delle opinioni pubbliche dalla crisi della politica al tema esclusivo della caccia ai nullafacenti – contando, peraltro, su basi oggettive più che solide – ha contributo a creare un perverso frullato fra politica e amministrazioni, politici e grand et petit commis, che pone serissime difficoltà ad affrontare serenamente temi quali etica e responsabilità nell’amministrazione. Pur alla luce di queste difficoltà, tre aspetti possono aiutare a contribuire alla riflessione su come declinare al meglio il ruolo delle dirigenze pubbliche nelle amministrazioni italiane.

Il primo. Un dirigente pubblico, aldilà delle appartenenze a singole amministrazioni e delle particolarità connesse a compiti e funzioni specifici, ha davanti a sé delle sfide enormemente più complesse rispetto ai compiti cui poteva adempiere 15 o 20 anni fa. I mutamenti epocali intervenuti nella società, sia in termini di velocizzazione dell’informazione che nella struttura dei gruppi sociali e dei corpi intermedi e della cittadinanza attiva, rendono imperativo per il dirigente (e per la P.A. tutta, naturalmente) alzare lo sguardo oltre le mura del proprio ufficio e, in caso di mancato adattamento, lo condannano senza appello all’estinzione (o alla sua marginalizzazione). Il dirigente non solo è un Giano Bifronte datore di lavoro/lavoratore dipendente, ma deve adattarsi ad almeno tre ruoli, complementari fra loro: a) è un esperto di norme di legge e di contabilità di Stato; b) è un gestore di risorse umane, sperabilmente un abile interprete delle umane personalità così da gestire con successo le dinamiche interne del suo ufficio; c) deve essere, infine e soprattutto, il garante delle reti esterne che con la P.A. interagiscono: altre amministrazioni, parti sociali, organizzazioni di diversa natura, cittadini attivi che sempre più vogliono interagire con l’azione pubblica e in qualche modo co-partecipare alla formazione delle decisioni.
Il secondo. Da questo quadro complesso ed innovativo è sostanzialmente scaturita la riforma Brunetta nelle sue due componenti fondamentali e interconnesse del ciclo della performance e della trasparenza. Ottime intenzioni, buoni spunti, risultati, tuttavia, deludenti, anche alla luce della formidabile capacità delle amministrazioni di digerire qualsiasi novità e trasformarla in mero adempimento. La logica era ed è condivisibile: rendere palesi e in qualche misura co-gestiti gli obiettivi delle strutture in un ciclo trasparente in cui tutti sanno quel che fanno e tutti sono chiamati a render conto, aprendo finalmente l’amministrazione al controllo diffuso dei cittadini. Quel che è accaduto è che i meccanismi realizzati sono stati spesso farraginosi, complessi, talvolta iniqui (si ricordi la celebre gabbia valutativa 25/50/25) e permeati di una filosofia sottostante di matrice sostanzialmente punitiva e non di supporto e crescita. Si pensi, inoltre, che in tema di trasparenza i momenti di confronto con gli stakeholder esterni sono sostanzialmente due: il passaggio nel Comitato Nazionale Consumatori ed Utenti del programma della trasparenza e la giornata della trasparenza. Ben poco rispetto ai processi di responsabilità sociale e rendicontabilità (accountability) che anche la P.A. dovrebbe affrontare ed al dibattito in corso sulla necessità di un Freedom of Information Act (FOIA) in materia di trasparenza come accessibilità totale, oggi solo accennata nella legge 15 del 2009. Insomma, tutto in linea, tutto disponibile, in forma intellegibile e accessibile con l’ausilio di open data, come antidoto a fenomeni di malversazione e base per un controllo effettivo e un ruolo partecipativo dei cittadini. A questo, naturalmente, le amministrazioni ed i loro dipendenti devono essere pronti, preparati, formati, a pena di soffrire di impatti non previsti e devastanti.
Terzo. L’esperienza – oggi ancora un esperimento – rappresentata dal corso-concorso di reclutamento e formazione dei dirigenti dello Stato a cura della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA), a seguito del quale, dopo più di dieci anni, circa 500 dirigenti (sta terminando in questi mesi il periodo di formazione del V corso) sono nelle amministrazioni in tutto il territorio nazionale. Perché, a mio modo di vedere, il corso-concorso è una leva fondamentale a favore della maggiore responsabilizzazione delle dirigenze italiane? Per cinque motivi: 1) serve a portar dentro le amministrazioni pubbliche persone giovani e, soprattutto, non abituate a pensare secondo gli schemi consolidati interni; 2) un concorso nazionale attenua le spinte centripete delle amministrazioni che amano moltissimo fare concorsi interni in cui troppo spesso vengono fatti valere dinamiche e legami che non necessariamente premiano le figure migliori; 3) serve a far leva contro quel processo di disintegrazione della dirigenza che si è andato consolidando negli anni o, quantomeno, ad attenuarne le degenerazioni; 4) forma una classe dirigente sulle medesime basi, sui medesimi valori, pensino sulla comunanza fisica e di spazi, che serve a dire “sono un dirigente dello Stato”, non di quel ministero od ente, contribuendo a creare quello spirito di corpo che tanto invidiamo alle élite francesi; 5) nel rendere il dirigente pubblico parte di una comunità, lo rende più consapevole del suo ruolo e della sua necessaria autonomia di azione, anche nei confronti della politica.

Proprio nel momento in cui più alta si fa la richiesta dei cittadini di comportamenti etici da parte di coloro che operano nel pubblico (nella politica come nelle amministrazioni), occorre che sia in primo luogo inappuntabile la ricerca dei migliori, secondo la strada costituzionalmente garantita del concorso, e che la dirigenza pubblica sia sempre più robusta così da resistere alle inevitabili (e, in qualche misura, legittime) richieste della politica. Manager non ci si improvvisa: si diventa. E occorre formare figure che siano non solo capaci di gestire con efficacia le dinamiche interne per garantire l’efficacia, l’efficienza e la economicità dell’azione pubblica. Servono persone che, allo stesso tempo, siano in possesso di tutti gli strumenti per interagire con successo con governance complesse che hanno al loro centro i principali interlocutori delle amministrazioni: i cittadini.
Sunto della relazione svolta, in qualità di Presidente dell’Associazione degli ex Allievi della SSPA, presso il seminario “Dirigenze pubbliche al servizio della Nazione: dialogando di etica, benessere e responsabilità” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma Tre, in occasione delle presentazione del volume di Gabriella Nicosia “Dirigenze responsabili e responsabilità dirigenziali pubbliche” (Giappichelli Editore, 2011)
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