Simone Sinigaglia, operaio di 40 anni della provincia di Padova, è morto suicida dopo aver ricevuto la lettera di licenziamento per violazione delle norme che regolano i permessi per l’assistenza ai famigliari con disabilità della legge 104 del 1992. Da quanto si apprende al momento sui giornali, l’azienda aveva dato incarico a degli investigatori di pedinarlo per verificarne i comportamenti nelle giornate di permesso, mentre la famiglia sostiene che facesse semplicemente dei lavori nel giardino della zia, destinataria dell’attività di cura di Sinigaglia. Inutile, di fronte ad una tragedia come questa, azzardare ipotesi e ricostruzioni circa l’accaduto e la condotta dei soggetti coinvolti: come sempre, parleranno gli incartamenti per i successivi approfondimenti. Sulla base di quel poco che si sa, tuttavia, è possibile una breve riflessione circa scopo e natura dei tre giorni di permesso retribuito mensile di cui può godere il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con grave disabilità. La legge, modificata più volte, anche alla luce di pronunce della Corte costituzionale, permette l’assistenza al coniuge, al parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona da assistere abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. È evidente, dunque, il favor verso la persona con grave disabilità e il tentativo di individuare comunque, anche in situazioni in cui i congiunti più prossimi non siano in grado di assolvere i compiti di assistenza, una persona di riferimento per la persona e i suoi bisogni. Ma in cosa consiste, di fatto, l’assistenza? A ben riflettere, per la persona con grave disabilità che risieda presso il proprio domicilio (il beneficio non si applica nel caso di ricovero a tempo pieno) non potranno mai essere sufficienti tre giorni al mese per condurre, con dignità, la propria quotidianità. Le tre giornate, in realtà, possono concretarsi in vari modi, a seconda della condizione pratica dell’assistito. Può trattarsi di cura materiale che, limitata nelle giornate lavorativa, dura per tutto il giorno nei casi di permesso. O, come spesso accade, di giornate che vengono utilizzate per disbrigare le tante pratiche mediche o burocratiche che la persona assistita non è più in grado di compiere. Ancora, possono venire utilizzate per accompagnare la persona con grave disabilità presso visite mediche. Insomma, si parla di assistenza a tutto tondo, tesa a rendere migliore la vita di chi si trovi in situazioni di particolare fragilità e che, secondo una recente giurisprudenza, può esplicarsi anche attraverso una mera assistenza spirituale, o di compagnia, per chi passi le sue giornate senza la vicinanza dei propri cari. È un istituto che non prevede paletti troppo rigidi, per evidenti motivi, ed ha natura chiaramente fluida, legata alla situazione del caso. Sta al datore di lavoro, anche sulla base delle indicazioni fornite dall’INPS, conciliare la più ampia fruibilità dei permessi con le esigenze organizzative dell’azienda, dell’ente o della struttura pubblica, cercando sempre di aver bene presente, tuttavia, il bene supremo della tutela del diritto all’assistenza e alla cura della persona con grave disabilità. Non è infrequente, purtroppo, com’è nella natura delle cose umane, imbattersi in casi di disonesto utilizzo del beneficio: patologie da combattere con durezza e che, tuttavia, non debbono inficiare la validità di una normativa di civiltà e di solidarietà. Questo breve excursus per arrivare a dire che, basandosi su quanto emerso sino ad oggi sui quotidiani, i lavoretti che Simone faceva nel giardino della zia potevano ben ricadere nella casistica legittima della fattispecie dei permessi della legge. Non è possibile, al momento, dire altro: troppo scarni i fatti a disposizione e troppo vivo il dolore che ha investito famiglia, amici e colleghi. Le parole si fermano necessariamente qui.
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