C’è una notizia – una storia – che è stata sostanzialmente ignorata dai media Italiani e che, al contrario, ci insegna molto sul modo di concepire la comunicazione politica e la politica stessa oggi. In un crescendo di polemiche, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha recentemente apostrofato con rudezza quattro fra le deputate Democratiche più in vista al momento, sostenendo, in una serie di tweet, che sono un “mucchio di comuniste” che odiano Israele e gli USA (“our own Country”, ha scritto Trump) e che dovrebbero tornarsene nei loro Paesi. Le quattro deputate, oramai definite “the squad” (la squadra), sono Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta nel Congresso, Rashida Tlaib, prima palestinese-americana ad entrare in Parlamento, Ilhan Omar, rifugiata somala e mussulmana arrivata negli USA a 12 anni e naturalizzata americana, e Ayanna Pressley, prima africana-americana del Massachusetts nella House of Representatives. Inutile evidenziare come queste donne e l’attuale Presidente USA rappresentino, da ogni punto di vista, due idee del mondo completamente diverse, se non antitetiche. Tuttavia, l’invito a tornare a casa rivolto alle deputate, che ha suscitato un vespaio di polemiche, ripetuto più e più volte in discorsi pubblici (“you can leave”, è stato il refrain), è qualcosa di unico nel suo genere. Non solo perché, se Omar è naturalizzata americana, le colleghe di partito sono cittadine americane nate sul suolo USA, ma perché simbolo del modo spregiudicato e facinoroso di gestire la lotta politica, alimentata dai social media il cui utilizzo, sempre più spesso, cozza con la necessità di analisi e ragionamento che la complessità della società contemporanea invece richiederebbe. L’episodio che è seguito ai tweet del “go back”, come viene chiamato dai media americani, è esemplificativo: durante un comizio nella Carolina del Nord i sostenitori di Trump hanno cominciato a intonare in corso “send her back” (rispediscila indietro), riferendosi alla deputata Omar, ripetutamente accusata da Trump di essere una sostenitrice di Al Qaida (accusa non suffragata da alcun elemento fattuale e sdegnosamente rispedita al mittente da Omar): il tutto nel compiaciuto silenzio del Presidente, che solo dopo ha detto di disapprovare l’accaduto. Attenzione: non è solo una storia americana. È l’esempio plastico di una dinamica pericolosa per il tessuto democratico delle nostre società che dovrebbe preoccupare anche noi Italiani che, da questo punto di vista, siamo fedeli emuli del format USA. C’è, intanto, il tema della demonizzazione dell’alterità, l’accento quasi ossessivo sul “noi” (“il nostro Paese”) avverso di “loro”, con tutta una ricca e variegata gamma di possibilità di separazione. Aldilà della incredibile manipolazione della realtà nel caso di specie (dove diavolo dovrebbero tornare le deputate americane elette nel Congresso?), nella mediatizzazione spinta della frattura noi/loro è evidente il rifiuto di ogni meccanismo inclusivo, assai familiare anche qui da noi: senza andare troppo in là nel tempo, è sufficiente, infatti, scorrere il profluvio di dichiarazioni relative alla vicenda della SeaWatch3 per capire come il tema dell’identità nazionale sia spesso declinato con modalità parabelliche, quasi vagheggiando una immaginifica purezza della stirpe a fronte degli immani pericoli di un mondo globalizzato. In poche parole, il rifiuto della complessità della contemporaneità.
Non è un caso, ad esempio, che le quattro deputate USA non siano bianche, o che non siano tutte di religione cristiana. E non è un caso che, per riprendere gli eventi che hanno visto protagonista Carola Rackete, le dimensioni del genere della Capitana tedesca e del colore della pelle dei migranti abbiano tenuto banco nelle baruffe social. Molti i casi che rendono palese il fenomeno in Italia: ripetuti episodi di razzismo avverso chi è ritenuto ospite sgradito, attacchi sessisti che degenerano spesso in violenza, l’emarginazione di chi si trova in situazioni di fragilità, discriminazioni avverso le persone omosessuali. Sembra, quasi, il ritorno a una spinta tribale, primordiale, di clan, che si fa forte di suggestioni – del tutto strampalate – di rinnovate comunità di sangue, assediate da donne e uomini che non posseggono le stesse caratteristiche della tribù minacciata la quale, dunque, non può che ricompattarsi per respingere un attacco che mette in pericolo la sua stessa esistenza. Si tratta, come appare con sempre maggiore chiarezza, il disinteresse – se non l’aperto disprezzo – per l’elementare valore della diversità attraverso la totale indifferenza per la conoscenza dell’altro, per l’empatia, per la simpatia, etimologicamente intesa come condivisione di sentimenti, emozioni, dolore. Grazie alla costante semplificazione della realtà, che richiede, invece, regole nuove per governare al meglio la complessità, si mette in atto la delegittimazione dell’avversario, individuato in misura sempre maggiore al di fuori dell’agone politico: una riedizione moderna della categoria del nemico oggettivo. Una lotta senza quartiere che viene spesso alimentata da palesi falsità spacciate per verità e veicolate, in maniera massiccia, da un utilizzo attentamente pianificato della rete che, in un momento storico di crescente analfabetismo funzionale, porta ad una corrosione pericolosissima del dibattito democratico. L’insulto, la denigrazione sistematica, la costante propalazione di bufale (chiamiamole fake news, se volete), la riduzione della discussione politica a mischia da pollaio a ritmo di tweet o slogan non solo mortifica lo spirito di una comunità ma mette a serio rischio la tenuta sostanziale dei diritti e dei doveri dei membri di quella comunità. Basti vedere come la politica nostrana stia gestendo la scioccante vicenda degli affidi di Bibbiano, su cui sta indagando la magistratura: un infinito e desolante ping pong condotto sui social network, aizzando le contrapposte tifoserie, quando occorrerebbe misura e pudore per la delicatezza della questione e riflessioni serie nelle sedi opportune. La responsabilità di ricondurre alla fisiologia la discussione sulle scelte fondamentali della società ricade naturalmente su di tutti ma, in primo luogo, sul sistema dell’informazione, che può scegliere di non alimentare irrazionalmente questa sarabanda permanente, e, soprattutto, su chi riveste responsabilità pubbliche, che deve mettere in conto non solo il suo personale vantaggio ma anche il perseguimento del progresso materiale e sociale della società. Al contrario, tranne poche, lodevoli eccezioni, il rompete le righe arriva dall’alto, col pericolo elevatissimo di gettare benzina giorno dopo giorno sui focolai di pestilenza che ammorbano chi, scientemente o meno, decida di farsi abbindolare e, al contempo, di nauseare definitivamente coloro che ancora sperano in una conduzione non patologica della cosa pubblica. Sì, non siamo soli: ma non è una gran consolazione.
Pubblicato su Linkiesta