Quei maledetti, puzzolenti, fastidiosi “vu cumpra’”

Siamo e restiamo un’Italietta. Un popolo di provincialotti timorosi della propria ombra che – ingenuamente o maliziosamente, non saprei – si concentra sul dito invece di inquadrare la luna. Un’estate densa di figurette, questa del 2014: a partire dall’ormai celebre Tavecchio, incartato in quel mangiabanane che lo accompagnerà a vita, fino al Ministro dell’Interno che parte lancia in resta contro la ghenga criminale dei “vu cumpra’” per garantire spiagge sicure agli Italiani in vacanza, per arrivare alle scritte e ai manifesti antisemiti a Roma. Un quadretto memorabile. Il primo viene eletto da un gruppetto di anziani affaristi del calcio (“Me lo so’ messo sulle spalle”, gongola Lotito), che se ne impippano altamente del fatto che gli stadi sono sempre più lasciati a loro stessi, abbandonati da famiglie e tifosi che amano questo sport. Il secondo, inconsapevole emulo del Benigni di “Johnny Stecchino”, fa la faccia feroce e trova al primo colpo quale sia il problema dell’Italia (oltre al traffico, beninteso): le molestie ai bagnanti in spiaggia ad opera degli stramaledetti “vu cumpra’”, che si arricchiscono come Cresi alle spalle di chi si gode il meritato riposo, riuscendo magistralmente a mettere in secondo piano il vero problema delle cricche criminali che si arricchiscono col mercato della contraffazione e dello sfruttamento (qui il comunicato stampa). Entrambe le vicende, ammettiamolo, hanno un quid (sic!) di comico, di farsesco, ma inevitabilmente degenerano in tragedia. Ed è in questo clima che possono agire quelle frange di razzisti fascistelli d’accatto che hanno imbrattato la capitale d’Italia con scritte antisemite e liste di proscrizione di negozianti, facendosi scudo degli accadimenti di Gaza, specchio per gonzi.

Vicende molto lontane fra di loro, naturalmente, ma che trovano alimento e nutrimento dalle medesime radici razzistucole di cui non riusciamo a liberarci. Nulla di cui stupirsi, d’altronde: è questo il linguaggio, l’immaginario e il brodino culturale di tanta parte degli Italiani, la culturetta fracassona da baretto che ancheggia per sterotipi e per sentito dire, facendoli propri a mò di dogmi incrollabili, mettendo in un unico, ribollente calderone negri e giudei. E froci, che fanno colore. Possiamo indignarci a volontà, ma è quando questo approssimativo linguaggio viene fatto proprio da chi è classe dirigente del Paese che dobbiamo preoccuparci sul serio. Chi ha responsabilità pubbliche nella politica, nell’impresa, nell’amministrazione, nello sport, dovrebbe sapere e comprendere che le sue parole pesano, pesano molto di più delle chiacchiere da osteria. Parlare in libertà senza mordersi la lingua equivale a legittimare quel coacervo di luoghi comuni razzisti che appestano la nostra società, fatto di tali schifezze che ci sarebbe da chiedersi come si sia potuto dimenticare che molti dei nostri padri e dei nostri nonni vivevano da puzzolenti emigrati solo una manciata di decenni fa. Padri di famiglia che andavano per anni, se non per decenni, a vivere a migliaia di chilometri lontano da casa a fare lavori infernali, sottopagati e in nero, e a dividersi la brandina col compagno alternandosi col turno di giorno e di notte, il tutto per far campare la famiglia quaggiù. In questa estate che è arrivata con due mesi di ritardo ce li meritiamo i Tavecchio da barzelletta, gli Alfano che ci ricacciano indietro ai tempi dei bingo bongo leghisti. E ci meritiamo coloro che li sostengono, li tollerano, li applaudono. Ce ne vorrà ancora per crescere, per avere una società che sia capace di avere un sistema di regole certe e che sia in grado di condannare chi commette un reato – reato! – senza distinzione di cittadinanza e di pelle, ma che abbia la forza e l’onesta di riconoscere quali siano i disperati, i diseredati, quelli che non abbiamo il coraggio di guardare negli occhi per paura di riconoscerci. Fino ad allora, potremo restare tranquillamente sul nostro lettino a leggere il nostro periodico gossipparo e a sentirci finalmente liberi dal cancro della società moderna: i maledetti, puzzolenti, fastidiosi “vu cumpra’”.

5 Replies to “Quei maledetti, puzzolenti, fastidiosi “vu cumpra’””

  1. Concordo: è quando questo approssimativo linguaggio viene fatto proprio da chi è classe dirigente del Paese che dobbiamo preoccuparci sul serio. Forse l’autore dovrebbe ricordare di essere anche lui parte della classe dirigente del Paese, di cui potrebbe parlare con più rispetto e misura, come pure raccomanda di fare agli altri. Cos’è qui, la fiera del diminutivo/dispregiativo? “Italietta, provincialotti, gruppetto, fascistelli, razzistucole, culturetta”. Anche questo è il “ linguaggio, l’immaginario e il brodino culturale di tanta parte degli Italiani, la culturetta” per cui ci sono degli italiani che si sentono moralmente superiori agli altri, quelli che hanno le “medesime radici razzistucole di cui non riusciamo a liberarci.” (delle radici, o delle persone?). Vicende che ‘inevitabilmente degenerano in tragedia’? Ma dove, ma quando? Dopo il complotto demogiudoplutom assonico abbiamo la congiura di Tavecchio ed Alfano? Ma và!
    Io ho orrore del razzismo, ma soprattutto del politicamente corretto che impone a tutti di pensarla alla stessa maniera e di indignarsi a comando. Roma è sconciata da graffiti, cartelloni pubblicitari abusivi, ma l’ordine d’indignazione scatta solo quando dei tizi affiggono dei volantini antisemiti (A4) – che diciamo la verità sono antipatici, ma non sono mica bombe. Gli è che se a Roma non fosse possibile fare di tutto, se ci fosse vigilanza, allora non ci sarebbero né manifestini antisemiti né vu cumprà o come ti pare di chiamarli. Che sono tutti il sintomo dello sbraco in cui viviamo quotidianamente, di cui molti cittadini, me compreso sono stufi, e che convince molti stranieri, comunitari e non, che a Roma possono fare il loro porco comodo.
    Poi per favore non mettiamo insieme i minatori di Marcinelle, produttori di ricchezza, e i venditori di griffe fasulle, terminali di un sistema che prende in ostaggio la loro miseria e trova la connivenza di chi pensa che ‘beh, devono pur campare’ e così ne perpetua lo sfruttamento. Soprattutto non mettiamo sullo stesso piano quei paesi che ai nostri immigrati hanno offerto dignità, futuro, pane e lavoro, e il nostro – che manda la Marina a completare il lavoro degli scafisti – e dopo aver scaricato altri disperati sulle nostre coste, non trova di meglio che lasciargli fare gli schiavi della Camorra. Troppo facile non fare nulla, e sentirsi pure generosi e tolleranti, eh?
    Io che ho vissuto in mezzo agli immigrati africani in Olanda ho visto come si comporta un paese serio, che offre integrazione e diritti, ma pretende il rigoroso rispetto della legge. E odio perciò il classismo per cui le periferie si devono prendere i campi nomadi, l’abusivismo, e pure lezioni di tolleranza dai BoBo che abitano in centro.

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  2. Nessun complotto, per carità. E nessuna indignazione a comando. Il punto è che le parole non sono neutre. Non uso mangia banane o vu cumprà, e per questo mi sento libero di criticare e, allo stesso tempo, di farmi girare le scatole se vedo la mia città – centro o periferia è lo stesso – nel caos più totale. Di qualsiasi colore. E se non cambia la ‘culturetta’ i problemi non li affronteremo e risolveremo mai. Con le regole, beninteso

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  3. Carissimo, davvero non posso fare a meno di rinnovarti tutta la mia stima ed il mio apprezzamento; condivido ed apprezzo in pieno tutti i tuoi interventi ed il tuo modo di pensare, trovandovi conforto e sostegno. Considerando il vuoto totale ed il conformismo becero dell’intero panorama culturale italiano, ti esorto a continuare la tua attività, ringraziandoti per il prezioso contributo che cerchi di dare al progresso civile del nostro paese.

    Massimiliano Nardocci

    Date: Tue, 12 Aug 2014 23:44:53 +0000 To: mnardocci@hotmail.com

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  4. Non è questione di parole! è una ossessione sinistroide e politically correct quella di voler cambiare il mondo cambiando le definizioni. Di qui una dittatura benpensante che pretende di classificare le persone a seconda di come parlano. Un tale, un mio collega, pretendeva di desumere una mia attitudine sprezzante verso gli impiegati del mio ufficio dal fatto che li chiamavo “dipendenti” e non, come diceva lui, “collaboratori”. Peccato che il mio ufficio fosse dieci volte più grande del suo, e io, per forza di cose, non posso “collaborare” con 100 persone.

    Così io dico ancora ‘negro’, che è un termine latino, nobilissimo, usato per secoli, e me ne frego se adesso non si può più dire perché in America è una brutta parola. Che, era razzista Leopold Sedar Senghor, il grande poeta senegalese, quando parlava di “negritude”? Così, quando arrivano questi politically correct, petulanti come beghine, a dirmi come devo parlare e come no, gli sbatto tra i denti le mie due fidanzate africane, la mia collezione di artigianato, i miei viaggi all’Equatore. Loro non sanno distinguere un Mande da un Peul da un Wolof da un Kikuyu, vedono solo una pelle scura, ma il razzista sarei io…

    Amico mio, le parole sono importanti, ma la realtà lo è ancora di più.

    E se non sei convinto leggiti questo pezzo di Doris Lessing che ti spiega quanto quel linguaggio che a te sembra liberatorio, sia in realtà totalitario:

    http://quintavalle.blogspot.it/2007/10/la-dittatura-del-politicamente-corretto.html

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  5. Anni fa ero una delle poche persone che si fermavano a parlare con questi ragazzi scoprendo che molti di loro erano laureati. Però a quei tempi erano ancora pochi, come dicono molti adesso, adesso che sono troppi e che nessuno li vuole più vedere. Il tempo cambia le cose e tutto è diventato peggiore o sono diventate peggiori le persone? Non ho mai guardato il colore della pelle di una persona perchè io guardo la persona e basta. Ma lo so, io sono strana, io non guardo molte cose. Io sono così, senza colori.

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