Chi condivide va avanti

Così recita l’esordio di un articolo sul Sole 24 Ore, secondo il quale, sulla base di una recente ricerca, vanno smontati i luoghi comuni sull’uso dei social network sul posto di lavoro. Secondo i dati rilevati, chi adopera Twitter, Linkedin o Facebook per motivi professionali fa carriera più facilmente: l’86% degli intervistati è stato promosso di recente contro il 61% di chi non ne fa uso. È inoltre mediamente più soddisfatto del lavoro e si ritiene molto più produttivo ed efficiente. Non solo, più si sale nella scala gerarchica più i social diventano familiari: il 71% di chi fa parte del livello medio alto li impiega almeno una volta a settimana, contro il 49% degli utenti in ruoli junior. Non esito a crederlo: l’utilizzo intelligente – e lo ripeto, intelligente – di questi strumenti è un efficacissimo moltiplicatore di reti nella rete e facilita lo scambio di informazioni. Questo nel settore privato. Ma nel pubblico?

Un altro stereotipo che va sfatato, seppure con cautela,  è quello di uffici ossificati e popolati di cavernicoli dell’ICT: sebbene ancor troppo a macchia di leopardo, le tecnologie informatiche avanzano rapidamente e l’utilizzo della carta decresce sensibilmente, così come aumenta l’interazione diretta con i cittadini attraverso i siti istituzionali anche grazie alle normative in materia di trasparenza. In questo contesto, è singolare come proprio i social network arranchino. E’ una sorta di doppia realtà: se nel “mondo là fuori” abbiamo quasi tutti un profilo su una qualche piattaforma, l’utilizzo di questi strumenti, lodevoli eccezioni a parte,  è bandito o, quanto meno, fortemente sconsigliato negli uffici pubblici, soprattutto a livello centrale. Facile l’obiezione: il dipendente fannullone passerebbe tutto il suo tempo a chattare su Facebook. Qualcuno potrebbe sicuramente farlo, ma va detto che quest’idea è legata, come gran parte del dibattito da bar sul settore pubblico, alla raffigurazione del lavoratore come robot. Tot pratiche, tot minuti: se sgarri, sei un nullafacente. Dato per assodato che arrivare ad un risultato di rilievo in una qualsiasi politica pubblica significa mettere insieme e sbrogliare le istanze di soggetti diversi e confliggenti (altri uffici, regioni, associazioni), proverei a capovolgere la prospettiva e dare una iniezione di fiducia al sistema: i social network possono essere una fonte preziosa di notizie, spunti, documenti, in interazione diretta con altri interlocutori, che posso selezionare, archiviare, consultare e che arricchiscono la visuale di chi deve – e ci mancherebbe altro – basare la propria azione su leggi e regolamenti ma che, allo stesso tempo, è chiamato in misura sempre maggiore a interagire col mondo esterno. E non parliamo di Skype, che manderebbe finalmente in soffitta decine e decine di lunghe riunioni e defatiganti spostamenti decisamente superflui!

Insomma, i social network non saranno la panacea che risolve i mali delle pubbliche amministrazioni, men che mai di quelle italiane, e sarebbe senza dubbio complicato poter valutare con esattezza quale valore aggiunto il loro utilizzo porterebbe nel livello di produttività degli uffici e sull’impatto delle politiche nei confronti dei cittadini. Senza voler scomodare l’irrobustimento di “democrazia elettronica” che un utilizzo efficiente e ragionato comporterebbe in termini di rapporti fra amministrazioni e cittadini, serve indubbiamente una riflessione su come gestire gli effetti di una rivoluzione del genere. E di rivoluzione si tratta, dato che uno dei vizi antichi del burocrate è quello di non condividere ma gestire gelosamente i confini del proprio piccolo orto per non perdere pezzi di potere o presunto tale. Se la trasformazione dei siti internet istituzionali ha comportato e comporta una riorganizzazione interna per far fronte alle richieste di cittadini e imprese (la trasparenza ha dei costi!), l’interazione diretta tramite i social potrebbe portare in dote una serie di esternalità, se non altro legate un semplice calcolo costi-benefici. E tuttavia, nel medio e lungo periodo, condividere per andare avanti è una sfida che l’attore pubblico non può permettersi di accantonare e occorre essere preparati, prepararsi e preparare chi poi va in trincea (o in rete). E chissà, magari favorire i più interattivi.

2 Replies to “Chi condivide va avanti”

  1. Il fatto che i SN si usino poco nella PA, al momento, è un bene.

    Faccio un esempio concreto:

    http://blog.ernestobelisario.eu/2012/04/25/pa-2-0-e-on-line-il-vademecum-del-ministero/
    http://egov.formez.it/content/vademecum-pubblica-amministrazione-e-social-media

    Nel Vademecum su “Pubblica Amministrazione e Social Media” si legge:

    Va detto che non vi è alcun obbligo normativo per la PA a essere presente con un proprio presidio istituzionale su uno o più siti social e che questi strumenti integrano e non sostituiscono i tradizionali canali di comunicazione attraverso i quali
    l’amministrazione rende disponibili le informazioni e i propri servizi al cittadino.
    (…)
    Filippo Patroni Griffi
    Ministro per la Pubbica Amministrazione e la Semplificazione

    E non potrebbe essere altrimenti.
    Poi:

    2.4. PA e accessibilità dei social media
    Il sempre più diffuso ricorso ai social media da parte delle Pubbliche Amministrazioni, quali moderni strumenti di comunicazione e di partecipazione dei cittadini, richiede particolare attenzione al rispetto dei requisiti di accessibilità del Web vigenti nel nostro Paese, ai sensi della legge n. 4 del 2004 e dei suoi decreti attuativi.

    I servizi erogati tramite i social network sono caratterizzati, al momento, da un basso livello di accessibilità. È opinione diffusa tra i disabili che la tecnologia, in particolare nel campo della comunicazione, si sviluppa senza tenere conto di una fetta di popolazione e quindi compromettendo la piena attuazione del processo di e-democracy. Da un lato i social network offrono numerose occasioni per coin- volgere gli utenti, dall’altro, se non opportunamente realizzati in conformità ai requisiti di accessibilità, possono diventare causa di esclusione sociale e di di- scriminazione nei confronti degli appartenenti alle categorie svantaggiate. Que- sto non è ammissibile per la PA che si trova, quindi, a dover coniugare l’utilizzo delle nuove tecnologie con i principi di libertà, solidarietà e uguaglianza.
    Per garantire l’accessibilità ai disabili, secondo la normativa italiana attualmente vigente, i siti web della PA devono essere conformi ai requisiti tecnici elencati nell’allegato A del Decreto Ministeriale 8 luglio 2005.

    Nel seguito si dice anche che linee guida e requisiti sono in corso di revisione.
    Se interessa, ecco il testo che è stato in consultazione pubblica nel luglio del 2010:

    http://www.funzionepubblica.gov.it/lazione-del-ministro/wcag-20/nuovi-requisiti-e-punti-di-controllo-per-l%E2%80%99accessibilita.aspx

    * * *

    Siccome già la comunicazione istituzionale attraverso le forme e i modi obbligatori è carente (oggi mi sento buono), non mi pare il caso di sottrarle risorse per dedicarle ad altro (!) con l’aggravante di dedicarle a qualcosa che ha scarsa usabilità e peggiore accessibilità.

    Chissà in futuro, cabiando le premesse.

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  2. Forum OCSE 2012, a margine del Consiglio a livello Ministeriale: come sempre, l’OCSE utilizza facebook e twitter per l’aggiornamento dei partecipanti e la proposizione di temi e argomenti.
    In uno dei convengi addirittura invitata un’esponente di Occupy London al fine di acquisirne i punti di vista su come i governi debbano operare per il superamento della crisi. Se penso all’ultimo ForumPA che ho visto…

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